di Gianni Botta –
Triste realtà quella dell’estate: tanto attesa e quando arriva viene consumata in un momento dietro ai suoi riti balneari o montani, celebrati con lunghi viaggi collettivi in auto.
C’è però un’altra parte di questa stagione che viene celebrata nelle arene o negli stadi per ascoltare l’artista preferito o per accompagnare i figli, assecondando le loro preferenze.
Sabato sera a me è andata di lusso: alla Cavea dell’Auditorium sono andati in scena i Porcupine Tree – tappa romana di quello che potrebbe essere il loro ultimo tour (sic) – gruppo leggendario che ha dato nuova linfa al progressive rock, genere caro a noi 50/60enni ma anche a molti dei nostri figli, grazie ai quali questa musica non cessa di essere ascoltata.
In un’arena gremita in ogni ordine di posto, il gruppo guidato da Steven Wilson ha eseguito brani memorabili della loro discografia, a partire da Blackest Eyes, brano di apertura del loro fortunatissimo album In Absentia – da cui sono usciti molti altri successi – perfetto per scatenare l’inizio di un concerto.
A seguire Wilson ha indicato lo spazio alla sua sinistra per annunciare il bassista Nathan Navarro, assente a causa di un’emergenza familiare ma presente in tutta la sua forza grazie alle magie della tecnologia.
Dal nulla è partito l’intro di basso di Harridan – brano di apertura del loro ultimo album – e l’atmosfera si è fatta rovente.
La band ha continuato eseguendo molti brani tratti dal loro vastissimo repertorio fatto di ballad e suite tra cui: Mellotron Scratch, Open Car, la stupenda Dignity, Sound Of Muzak – che, oltre ad essere un loro classico, è anche una sorta di manifesto della loro musica nonché che denuncia il mondo della discografia facile (“The music of rebellion makes you want to rage, but it’s made by millionaires who are nearly twice your age“, La musica della ribellione ti fa venire voglia di arrabbiarti ma è fatto da milionari che hanno quasi il doppio della tua età) – , Chimera’s Wreck, Herd Culling, Anesthetize, Halo, per chiudere con Trains, altro cavallo di battaglia da cui è tratto il titolo di questo articolo.
Nulla di superfluo, ogni brano è stato essenziale per offrire al pubblico ciò che chiedeva a questo evento, raccontando una storia musicale composta e realizzata da virtuosi degli strumenti: sul palco oltre a Steven Wilson alla voce, chitarre e tastiera, Richard Barbieri alle tastiere, il fantastico Gavin Harrison alla batteria, John Wesley alle chitarre, nell’insieme un gruppo di magnifici 60enni, come ha commentato Wilson durante uno dei siparietti tra un brano e l’altro (we’re fu…ng older!).
A proposito di virtuosismi, tra lo stupore di molti (e, chissà, forse forse anche “l’ignoranza”), Steven Wilson ha rivolto un omaggio a Luciano Berio (“he changed my life“), conosciuto quand’era quindicenne grazie al suo insegnate di musica.
Il pubblico ha risposto in modo entusiasta: girando lo sguardo verso gli spalti una marea di teste canute faceva su e giù assecondando rapita la musica della band per poi accendere la notte con i cellulari.
Grande serata ieri sera all’Auditorium che avevamo desiderio di condividere con voi lettori, invitando coloro che non conoscessero i Porcupine Tree ad intraprendere il viaggio alla loro scoperta che, credeteci, non lascerà delusi.
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